Roma - Blindato dal voto di fiducia, nonostante le perplessità della Lega, il decreto legge - già approvato dal Senato - che prevede la privatizzazione di una serie di servizi pubblici non ha più ostacoli davanti a sé. E, se verrà approvato in via definitiva entro il 24 novembre, il bene naturale più prezioso, l’acqua, non sarà più distribuita e pagata ai gestori pubblici. Il decreto Ronchi liberalizzerebbe, infatti, il settore idrico in Italia. Un business di più di 5 miliardi di euro l’anno.

In particolare, la riforma prevede che entro il 2011 decadano tutte le aziende pubbliche che non abbiano ceduto almeno il 30% del capitale a soggetti privati. Diverso il discorso per quanto riguarda le società quotate che hanno tre anni in più per adeguarsi a patto che abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al 2015.

Il provvedimento rende anche obbligatorio il ricorso a gare per l’affidamento dei servizi e di fatto abolisce l’assegnazione diretta a società prevalentemente pubbliche o controllate. Inoltre, il disegno di legge - fortemente voluto dalle società che già operano nella privatizzazione dell’acqua - prevede che il servizio idrico possa essere affidato a un privato tramite gara pubblica nel migliore dei casi o, in via straordinaria, senza gara ma con l’avvallo dell’Antitrust.

Un provvedimento quello presentato dal ministro per le Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, atto a radicalizzare il processo avviato negli anni Novanta con la legge Galli che poneva fine alla municipalizzazione degli acquedotti instaurata da Giolitti. Un mondo che solo in Italia conta 252 imprese idriche per un fatturato totale che supera i 2,5 miliardi di euro.

Come detto, il dl non piace alla Lega che comunque lo approverà con l’amaro in bocca per non apportare ulteriore scompiglio in seno alla maggioranza. Ma fortissime critiche sono arrivate dall’opposizione e dalle associazioni dei consumatori, secondo cui se il decreto andrà in porto così come formulato, spalancherà la porta a infiltrazioni criminali nel business dell’acqua, con un immediato aumento delle tariffe per i consumatori.

Intanto, nonostante le rassicurazioni di Ronchi (“Non si tratta di una privatizzazione: viene rafforzata la concezione che l’acqua è un bene pubblico”) e del presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, secondo cui “è un buon provvedimento perché consente la liberalizzazione di un servizio”, la rete idrica italiana è ridotta a un colabrodo. E la situazione è ancora più drammatica è al Sud. Basti pensare che a fronte di una spesa media per famiglia di 253 euro all’anno, ad Agrigento se ne pagano 445 euro.

“Un settore, quello idrico, che secondo Teresa Petrangolini, segretario generale di Cittadinanzattiva può essere preso a paradigma delle tante facce dell’Italia: al Nord si investe di più, le tariffe sono mediamente basse, così come la dispersione. Ma tre Regioni sono in deroga per parametri microbiologici e chimici eccessivamente alti come l’arsenico. Al Sud invece non si investe, la rete è un colabrodo e, anche se i parametri di potabilità sono migliori che al Nord, le continue interruzioni del servizio in molti casi non favoriscono il consumo dell’acqua di rubinetto. Il Centro, dal canto suo, si contraddistingue per le tariffe medie più elevate”.

                                                                                              Fonte: M.E.