Napoli - Il segreto e l’armonia delle dolci melodie delle nostre canzoni napoletane, celano nei loro versi il mistero comune a quella larga schiera di “poeti del popolo” che Napoli ha fieramente avuto quali testimoni ed artefici di indimenticabili canzoni partenopee. Nonostante la scarsa o addirittura totale assenza di cultura, da parte di questi “poeti del popolo”, sono riusciti loro malgrado a diventare immortali con i versi di alcune delle più belle e note melodie napoletane. Uno dei cosiddetti  “poeti del popolo” che maggiormente ha lasciato un segno nella canzone popolare, è senza dubbio il guantaio Vincenzo Russo.

Figlio di un ciabattino di via Correra, e di una modesta operaia Lucia Ocibro, nacque  a Napoli il 16 marzo 1876, dove condusse una vita di stenti e di grosse sofferenze, costretto dalla miseria ai mestieri più umili e faticosi, e segnato da una grave malattia polmonare che lo porterà lentamente alla morte, a soli 28 anni. Ebbene questo sfortunato “poeta del popolo” scrisse il capolavoro che tutti noi conosciamo, una fra le più belle e melodiche canzoni napoletane: I’ te vurria vasà.  Dedicata ad un’ignota ragazza, di cui non si saprà mai nome, questa canzone resta ai vertici di una delle più grandi melodie mai conosciute. Questi alcuni dei celeberrimi versi della stessa: I’ te vurria vasà … / Ma ‘o core nun m’ ‘o dice ‘e te scetà. / I’ me vurria addurmi / Vicino ‘o sciato tujo  / ‘N’ ora pur’ ‘ì. 

Eduardo Di Capua poi, che quasi per caso capitò nel negozio dove Russo lavorava, per avere da quest’ ultimo i numeri del lotto, poiché si diceva che  era in grado di predire i numeri vincenti, scrisse la musica che noi tutti oggi conosciamo così bene, e che i più nostalgici, e non solo, talvolta cercano di intonare, tale è la bellezza di questa melodia candida ed innocente. Naturalmente Di Capua non ebbe mai un numero vincente, ma dall’incontro con Russo ottenne invece i testi di meravigliose canzoni, come la altrettanto celebre Maria, Marì!, del 1899, per la quale Di Capua si ispirò liberamente all’aria “Nume custode e vindice” dall’Aida di Giuseppe Verdi, e dello stesso anno anche la meno nota, ‘A serenata d’ ‘è rose, sempre edita, come le altre, dall’editore Bideri.

Seguì poi la celebre Torna Maggio!, un vero e proprio inno alla vita, una vita che purtroppo aveva già minato la breve esistenza del povero Russo, che ormai immobilizzato in un letto della vecchia casa paterna di piazza Mercato, si accinse a scrivere gli ultimi versi della malinconica e significativa L ’urdema canzone mia (Tutt’’e fernuto), con la quale purtroppo si congedò prematuramente da questo mondo: Nun me parlate cchiù de sciure e rose / Pe’ me ‘sti rrose songo senz’addore; / Nun me dicite: ‘a gioventù è ‘nu sciore. / Ca chisto sciore mio è muorto già. / Pe’ me tutt’è fernuto! / Addio, staggione belle! / Addio rose e viole!… / I’ ve saluto. Era l’11 giugno 1904, quando Vincenzo Russo si spense, lasciando un grande vuoto nella città partenopea.      

                                                                             Carlo Farina.